Surviving Sarajevo

Dove eravamo rimasti?

Finora i fatti realmenti accaduti. Lascio a te, lettore, la scelta su una eventuale svolta romanzesca.La narrazione della vendetta di Eva: sarà la descrizione nuda e cruda di ciò che avvenne (70%)

[Sarabanda]

Quella che leggerai – della nuda verità che hai chiesto – è una versione completa, ma sincopata: come per i capitoli precedenti, narrerò solo ciò che è necessario e sufficiente. Per tutto il resto, se te ne rimane la curiosità, c’è questa versione integrale della mia testimonianza.
Se poi vorrai leggerla toccandola con mano, cioè sulla carta, puoi provare a sostenere votando e condividendo questo stralcio della testimonianza: il libro potrebbe sempre servirti per riscaldare il biberon di tuo figlio, se la tua città, un giorno, venisse assediata.

§

Era una bella donna, mia sorella. Lo era anche devastata dal lutto. Trovò conforto nella frequentazione di altre due madri, giovani e belle, a cui l’assedio aveva strappato i figli: Milka e la giovanissima Ana.
O almeno così credette mio padre. Che un giorno intravide Eva che parlava con Max. Non osò avvicinarsi ma provò a chiederle conto di quell’incontro. I suoi occhi lo supplicarono di lasciar perdere. Lui non insistette.
Dopo che aveva saputo di Betò, Max era tornato per chiedere il suo perdono. Le aveva detto «Uccidimi.» mettendole in mano una pistola. Lei gli aveva risposto, guardandolo dritto negli occhi, con tono gelido: «Mi servi.»
Max portò Eva sulle colline nel novembre del 1993. Tornò poi diverse altre volte, portando con sé anche Ana e Milka. Ogni volta, quando rincasavano abbracciate, vomitavano. Vomitavano ma non piangevano.
Eva imparò che la mente e il corpo possono essere tenuti divisi. Il suo corpo era lì, reattivo, pronto: sorrideva, sospirava, gemeva. La sua mente, no: era nel giardino di casa, con Betò che coglieva le margherite e gliele portava: per ogni petalo che sfogliava le dava un bacio e rideva. Era con Fabio, quando gli aveva insegnato ad andare in bicicletta, quando aveva staccato le mani dal sellino e aveva applaudito suo fratello che pedalava. Era con mamma, che sapeva sempre cosa fare. Con papà, fra le sue braccia, al sicuro, dove niente di brutto poteva mai accadere.

I tre mesi successivi richiesero un attento lavoro di pianificazione, ed era la specialità di mia sorella: aprirono un bordello, dove ben presto Eva individuò, tra tutti quei bifolchi delle colline che lo frequentavano, l’unico che non proveniva dal contado. Ne divenne l’amante abituale: era un uomo furbo e molto ben introdotto.
«Vorremmo andar via da Sarajevo» gli disse lei in un gelido mattino di febbraio, nuda nella luce dell’alba, di fronte alla finestra.
Lui rise: «Non ti basto? Vuoi diventare la puttana di un altro?»
Eva lo ignorò, ormai gli riusciva facilissimo; nel vetro appannato vedeva solo il riflesso di Betò che disegnava col dito: «Tu conosci tanta gente importante, no?» disse stiracchiandosi languidamente, come un felino.
«Cos’hai in mente?»
«Una festa. Se mi aiuti a invitare le persone giuste, potrei farci abbastanza soldi da andare via da qui. Io, e le ragazze.»
Lui capì subito le potenzialità dell’idea – la sua mente corse a Mladić, la cui lussuria era ben nota – che anche per lui poteva essere un’occasione di mettersi in luce.

Alla festa, il 24 marzo, dopo un mese di preparativi, si presentarono non meno di quaranta invitati: per lo più ufficiali dell’esercito.
Le tre donne apparvero loro come una visione botticelliana: tuniche discinte che ricadevano in pieghe morbide sui seni nudi, piedi scalzi, capelli sciolti colmi di boccoli. L’alcool scorreva a fiumi.
Nessuno sentì la serratura che scattava alle due porte.
Fu servita una rakjia speciale che quelle ninfe offrivano facendola scorrere sui loro stessi corpi.
Credettero fosse l’ubriachezza a impastar loro la lingua, a rendere i movimenti difficili e lenti. Quando si trovarono paralizzati dal veleno, ma pienamente senzienti, nei loro occhi si dipinse un misto di incomprensione e di terrore, come in un incubo.
Li evirarono tutti e ad ognuno dissero qualche parola, una dedica atroce da portarsi ben stretta all’inferno.
Poi furono le fiamme: la villa intera divenne un magnifico rogo.
Ratko Mladić, il boia dei Balcani, non arrivò mai: mentre un’auto di lusso lo portava all’appuntamento con la morte che Eva Boksic aveva predisposto per lui, una telefonata lo fermò: sua figlia Ana si era sparata un colpo in testa, dopo aver scoperto che razza d’uomo fosse il padre che amava devotamente.
Due degli angeli purificatori, Eva e Milka, sparirono nel fuoco, vittime consapevoli del loro stesso verdetto: d’altronde, la loro vita non aveva più alcun senso. Non permisero, invece, che la troppo giovane Ana le seguisse nella morte: oggi fa l’infermiera e ha accettato di dividere con me quei ricordi.
Le ho chiesto se, dopo tutti questi anni, la vendetta era valsa la pena. Mi ha risposto «Sì.» senza l’ombra di un’esitazione.
Poi ci ha pensato, ha guardato la foto incorniciata di una sé stessa giovane e bella, con una bimba deliziosa in braccio e un ragazzo sorridente che le stringe, e ha aggiunto: «Era giusto.»
La penso come lei, lettore, e come mia sorella, la cui mancanza mi tortura ogni giorno.
Era giusto.

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575 Commenti

  • altri 2 capitoli; riflettevo con mia moglie di quanto siamo attirati dai racconti che raccontino di guerre e atrocità, noi che da 70 anni si vive fuori dalla guerra.Lei diceva giustamente che ad attirarci siano anche cinismo morbosità e cose di questo tipo. Personalmente, ingenuamente, mi attira l’idea di conoscere per prevenire; conoscere le trappole nelle quali già altri son caduti potrà mai servire ad evitarne qualcuna? Ci si prova , quotidianamente a partire dai nostri piccolissimi mondi, famiglia, amici, lavoro, sport e avanti. Grazie, ciao.

  • Ciao Locullo,
    vedo che sono un pò in ritardo sui tempi…Appena due anni dopo la tua pubblicazione.
    Ho da qualche minuto finito di leggere (tutto d’un fiato), la versione completa di Surviving Sarajevo acquistato su Amazon. Volevo ringraziarti per aver dato, attraverso il tuo racconto, un significato ancora più forte alla mia recentissima visita in Bosnia. Mi hai arricchita e, anche se ex post, hai reso la mia visita a Sarajevo e al “Tuneli” più completa, arrabbiata e consapevole di quanto già non lo fosse stata.
    Non so s leggerai mai questo commento, ma sentivo il bisogno di ringraziarti.

    • L’ho letto. Anche se purtroppo non ho più il tempo di frequentare questo bel sito, una e-mail automatica mi ha avvisato di questo tuo commento. Che mi ha fatto enormemente piacere: sono dunque io a ringraziarti, perché lo scopo di questo racconto era proprio di sensibilizzare chi avesse avuto l’avventura di leggerlo circa una guerra dimenticata – come tante altre – nell’Europa del Novecento.

      (Ora questo racconto è cresciuto ulteriormente rispetto alla versione che hai letto: un giorno forse uscirà dai cassetti. Ora invece, mi piacerebbe sentire la storia del tuo viaggio in Bosnia: se ha voglia di raccontarla mi trovi su gmail, alla voce chrisktab).

  • Questo racconto mi ha riportato indietro di molti anni. Addirittura al 1989.
    Erano i primi di settembre, e con la mia squadra di basket presi parte ad un torneo giovanile in Emilia Romagna.
    Tra i partecipanti trovava posto il Bosna Sarajevo. Mi sembra ancora di vederli: un gruppo eterogeneo di giovani dal talento cristallino, capitanati da un allenatore grande come una montagna ma dall’aria bonaria, che esibiva con orgoglio un dente spezzato, lascito di uno scontro, parecchio tempo addietro, con una leggenda vivente come Dino Meneghin.
    Arrivammo in finale. Inutile dire contro chi e quale fu il risultato; perdere, in quell’occasione, onestamente, non mi pesò. Sia perchè la superiorità della squadra avversaria era palese, sia perchè durante la settimana di durata del torneo avevamo fatto amicizia, ed essere sconfitti da un amico, in fondo, non è mai così terribile.
    Terribile fu il pensiero, però, allo scoppio della guerra, di ciò che potesse essere stato di quei ragazzi.
    Ricordo ancora che rimasi allibito nel guardare, su una rivista, la foto delle strutture devastate che pochi anni prima avevano ospitato le olimpiadi.
    Se la città è ridotta così, mi dissi, che fine hanno fatto i giovani cestisti del Bosna Sarajevo?
    Non lo saprò mai.
    Grazie locullo per il tuo contributo nel tentativo di risvegliare le coscienze sopite della cosiddetta “società civile”, che dall’assedio di Sarajevo, mi duole dirlo, non ha imparato proprio nulla.

    • Grazie a te per aver condiviso su questa pagina un aneddoto così sentito: nel leggerlo, mi sembrava quasi di averci giocato anch’io coi ragazzi del Bosna Sarajevo.

      (Se racconti così bene gli aneddoti, chissà come sei bravo a scriver racconti: in effetti, mi aveva colpito il titolo del tuo LTI, ma non l’ho ancora letto, ché sto cercando di “disintossicarmi” dalla mia dipendenza incipitara. Tuttavia, noto che stanno venendo fuori diversi giocatori interessanti, come te, boostwriter e altri: dovrò tornare a intossicarmi!)

      • Hai ragione, questo sito tende ad assorbire un po’ troppo tempo.
        Credo che prossimamente cercherò anch’io di ridurne la frequentazione, per riprendere fiato.
        Grazie ancora locullo, e a presto!

        • Ehi ehi ehi! Locullo mi ha citato! Avete visto tutti! Locullo mi ha citato! Ne ho la prova… Ahah.

          Loc… LTI merita, non perdertelo! Massi, vedi che a fare pierraggio poi il karma ti ripaga. Cmq non sapevo fossi emiliano pure tu. Grande. Io ho letto la versione integrale (su Amazon) di SS… Non conosco questa su TI, non l’ho letta, ma se ti è piaciuta questa allora vai sul super sicuro.

          Locullo, 2 cose: era ora che tornassi a capitaneggiare la classifica assoluta, diciamocelo, ci contavo proprio. Seconda cosa: hai proprio ragione, TI crea dipendenza.

          • Boost ma sei ovunque!
            Per quanto abbia un grande affetto per gli emiliani, devo confessare che eravamo ospiti al torneo di cui ho raccontato. Se i ricordi non mi ingannano (cosa che accade spesso) mi pare fossimo l’unica squadra veneta presente.

  • Un lavoro egregio.
    La copertina e il titolo mi hanno spinto ad approfondire, e anche il fatto che fosse tra le prime posizioni praticamente da sempre. Ma mai avrei pensato ad un lavoro così impegnato e ben realizzato.
    Ho letto un po’ di commenti qui sotto: mi informeró su questa versione estesa!

  • Mi hanno indicato il tuo racconto.
    L’ho letto col fiato sospeso, e in certi momenti con le lacrime agli occhi.
    Questo racconto dovrebbe essere esteso in un libro.
    Complimenti, aspetto altro tuo materiale!

  • Ciao locullo eccomi finalmente qui… ci ho messo un po’ perché nonostante tutto la lettura è molto impegnativa, e ha richiesto la giusta dose di attenzione e riflessione. Mi sembra inutile farti i complimenti, il racconto (che in fondo più che un racconto è una testimonianza storica) è eccezionale. Eccezionale come i personaggi, cioè il modo in cui hai dato loro forma. Vivi, come le loro sofferenze e come il loro coraggio. I loro pregi, le loro debolezze, i loro difetti e la loro forza. Sono tutte sensazioni estremamente tangibili nel tuo racconto, che ha soprattutto il pregio di portare alla luce il tema di un fatto che mentre accadeva (come racconta a ragione il narratore) era quasi totalmente ignorato dal resto del mondo, mentre oggi, al meglio, è appena conosciuto.
    Ho scoperto inoltre molte cose davvero geniali: sia nella struttura dei capitoli (dove riprendi i termini musicali), sia all’interno della narrazione. Bellissima la parte in cui il padre, come un testimone, viene chiamato a parlare in prima persona. Drammatica la descrizione dei cittadini che stanchi di nascondersi decidono di girare comunque per le strade, perché unica forma di difesa e protesta (trasformando i loro cecchini in “guardoni”, il loro mirino in un “buco della serratura”). Straziante la descrizione della morte di Betò (del quale mi vanto di aver intuito fin da subito la verità sul padre, ancora prima della rivelazione). Stupefacente questa verità: una madre che perde i genitori ha un nome, se perde il marito ha comunque un nome… quando perde un figlio, però, rimane comunque una “madre”. E tante, tante altre cose per le quali consiglierei a tutti, aspiranti scrittori e non, di leggere.
    In bocca al lupo ancora per il concorso (immagino quello su 20lines, colleghiamoci anche lì!), ora vado a lasciarti una piccola recensione anche su Amazon.

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