Urla, il vento

Il sabato del villaggio

Ferrara, novembre 1971

Se c’era una cosa che Marina adorava della sua vita a Ferrara, era l’immensa piacevolezza che provava ogni mattina nell’affacciare lo sguardo verso il mondo e sfruttare la godibilità offerta dalla vista di Piazza Ariostea. Anche ora, nonostante il periodo dell’anno e l’inverno ormai annidato nei cuori della gente, la piazza godeva di una luce particolare. In realtà, tutta Ferrara si stava attrezzando all’incombenza delle feste natalizie, capaci di rendere un luogo tranquillo come la realtà emiliana una ricetta complessa i cui ingredienti – autoctoni, pendolari e turisti occasionali – si amalgamano a fatica. Risultato: un grumo indefinito di mondanità. Quella mattina, Marina decise di sfidare l’umidità offerta dal Po e di sacrificare il buon senso in nome dell’eleganza: tailleur grigio scuro e zoccolo nero chiuso a tacco basso. Quel tipo di scarpa, sempre più in voga nell’ultimo periodo, l’aveva letteralmente conquistata. Comoda e pratica da un lato, elegante e con un tocco di sensualità dall’altro. Si era alzata presto, prima del solito, ma suo marito era già uscito di casa. Il suo primo pensiero da sveglia, non appena messo a fuoco lo spazio vuoto accanto a lei, fu quello di andare in cucina e guardare in direzione dell’anta destra del mobile posizionato sopra il lavandino. Era lì che suo marito era solito lasciarle un post it quando il lavoro lo costringeva ad uscire di casa prima che il sole, pigramente in quel periodo dell’anno, uscisse dalla sua.

Anche oggi, il lavoro non ha saputo attendere un orario decente per darmi il buongiorno. Ma questa sera, ti porterò fuori a cena. Buona giornata principessa. Tuo, Enrico

Le numerose suggestioni offerte dal grande patrimonio storico, letterario e archeologico di Ferrara avevano portato Marina ad appassionarsi e a laurearsi proprio in “Lettere, Arti e Archeologia” presso il Dipartimento di Studi Umanistici e ad intraprendere la carriera accademica. A 39 anni, poteva già vantare alcune pubblicazioni importanti e numerosi incontri con personalità di spicco, alcune appartenenti alle alte sfere politiche.

Mentre i suoi occhi si abituavano, lentamente, alla luce artificiale della cucina, il caffè prese a lamentarsi dall’interno della caffettiera, un sottile ma intenso borbottio che lanciava la richiesta indiretta di essere liberato. Poi, gustata la sua sigaretta mattutina – unico vizio in una vita per il resto attenta e parsimoniosa – infilò il lungo cappotto e si preparò ad uscire. In quell’istante, il telefono adagiato sul mobile d’entrata prese a suonare. La sua espressione mosse dallo stizzito al perplesso.

«Parlo con Adele?» la voce all’altro capo del telefono, femminile, sembrava quella di una sua coetanea, anche se sottile e a tratti incerta. «Tu conoscevi mia madre» proseguì la giovane donna, non ottenendo alcuna risposta.

«Sinceramente, non so chi tu sia. Comunque, il mio nome è Marina e non ho la più pallida idea di chi sia tua madre, né tanto meno Adele» mentre rispondeva, Marina provò una strana ansia che non riuscì a spiegare e che si trasformò in vero e proprio disagio quando la sua interlocutrice abbandonò la dolcezza iniziale della sua voce per donarle insistenza.  

«Tu sei Adele e hai ucciso mia madre» nel sentire questa frase, il cuore di Marina cedette per un istante, come schiacciato dal peso di una coscienza annidata dentro di lei ma che non le apparteneva. Cercò però di non far trapelare quell’emozione e prese a parlare, la voce più ferma che poté.

«Ascoltami bene, perché non lo ripeterò una seconda volta. Il mio nome è Marina e credo che tu abbia semplicemente sbagliato numero. O forse sei solo in vena di fare scherzi, dato che non ti sei nemmeno degnata di presentarti. Perciò, grazie per l’inutile perdita di tempo e buona giornata». Riattaccò, senza dare il tempo alla giovane donna di rispondere. Appoggiò la testa contro il muro, provata da quella strana conversazione ed emise un lungo, profondo respiro. Poi, afferrò il mazzo di chiavi e uscì di casa rapidamente, la gola secca, serrata da un’angoscia crescente e bisognosa d’aria. Una volta completamente all’aperto, lanciò lo sguardo verso la piazza con al centro la statua di Ludovico Ariosto. Da corso Porta Mare, al cui centro si trovava il portone che dava nel cortile interno di casa sua, la percorse da parte a parte, fino a raggiungere via del Gregorio. Qui, portò gli occhi verso l’alto in cerca di conforto, ma il cielo si mostrò plumbeo e murato da una barriera grigia all’apparenza insormontabile. Questo, non fece altro che aumentare il suo stato d’animo negativo, che prese il posto di un leggero e fugace sollievo. Come un illusorio sabato del villaggio leopardiano, una potente morsa tornò a serrarle la gola, arida come la volta celeste sopra di lei.        

 

Nel prossimo episodio, scopriremo qualcosa in più sulla nostra protagonista Marina, focalizzandoci:

  • entrambi (36%)
    36
  • sul suo presente (0%)
    0
  • sul suo passato (64%)
    64
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92 Commenti

  • L’atmosfera è sempre solforosa e accattivante, però io non ho capito un sacco di cose, te ne cito solo alcune: perché in un commissariato a un certo punto l’ufficiale giudiziario dovrebbe interrompere l’interrogatorio e lasciare discutere tra loro un testimone (la badessa) e il sospetto (Marina). Come ha fatto Marina, sospettata di omicidio e di sottrazione di pezzi di cadavere a uscire indisturbata dal commissariato per tornare al manicomio. Chi diavolo è la figlia della badessa e da dove salta fuori.
    A meno che tutto sto caos sia solo nella testa di Marina.
    Io so che in un noir che si rispetti non si deve spiegare tutto ma qui si esagera!
    Lasciamo spiegare il biglietto alla badessa, – lei che lo ha usato in principio

    Ciao

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