Correva l’anno 1922.
Rosina stringeva forte al petto la sua bambola di pezza. Era troppo piccola per capire cosa stesse succedendo, eppure il suo cuoricino batteva impetuoso.
Riusciva a sentire gli animi agitati e tristi delle persone che le stavano intorno.
Seduto davanti al camino, nonno Mario batteva ritmicamente il bastone di legno, l’oggetto dal quale ormai dipendeva negli spostamenti. Affidava a lui gli acciacchi della vecchiaia e la sua era stata una dura vita nei campi. Le ore trascorse sotto il sole cocente, in balìa del vento e del freddo, erano tutte lì, segnate sulla pelle aggrinzita del volto.
Ogni tanto si toglieva il cappello, tirava fuori il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciugava, spento, ora la fronte, ora gli occhi, l’una per il caldo del fuoco, gli altri per le lacrime commosse.
Pure nonna Caterina era irrequieta.
Nonostante la misera cena fosse finita da un pezzo e la cucina fosse stata già rassettata, continuava a passare la pezza sul grande tavolaccio di legno, ma era più un gesto irrazionale, perché Rosina lo vedeva il suo sguardo, assente, perso nei cupi pensieri di quella fredda sera di Gennaio.
Suo padre Vincenzo se ne stava lì, muto, davanti alla finestra con le mani in tasca e l’aria afflitta, sembrava quasi non ci fosse nella stanza, i suoi pensieri se li portava via il vento, chissà dove, forse nei ricordi di un matrimonio che all’inizio era sembrato felice ma che poi il tempo aveva lentamente consumato.
Seduta sulla piccola sedia di paglia, Rosina guardava la sua bambola.
Amelia gliel’aveva costruita con tanto amore. Era raro possedere un giocattolo a quei tempi, solo i figli dei benestanti potevano permetterselo e così per la bimba, la bambola era preziosa più dell’oro.
Ricordava ancora la consumata mano della mamma che la cuciva.
Con della vecchia tela di juta, sapientemente ritagliata e cucita da tutti i lati, aveva formato un sacchettino, aveva lasciato un piccolo buco, dove infilò numerosi quadrucci di stoffa per riempirlo. Cucito il foro, con lo spago legò i due angoli superiori del sacchetto, quelle sarebbero state le manine della bambola.
Allo stesso modo creò la testa, mentre con i fili di lana aveva tagliato i capelli.
Era stato il regalo per il suo quinto compleanno, due mesi prima.
La porta della stanza da letto si aprì lentamente.
Il dottor Di Giacomo comparve sull’uscio con le braccia penzoloni, lo sguardo basso e accigliato. Era il medico del piccolo paese e conosceva quella povera gente da sempre.
Rosina non avrebbe mai dimenticato quella scena, si sarebbe inchiodata alla mente per tutta la vita, per manifestarsi, crudele, nei suoi incubi notturni, svegliandola con la fronte bagnata di sudore e facendola sussultare nel letto.
Il medico guardò la piccola con gli occhi lucidi e il volto pallido. Era padre anche lui di una bambina:< Mi dispiace, se n’è andata!>.
Rosina levò gli occhi verso la nonna, che subito si era accostata per abbracciarla e con voce candida, ruppe la melodia tragica dei singhiozzi che le suonava intorno, come una musica spettrale.
< Dov’è andata la mia mamma, senza di me?>.
Il padre, con gli occhi pieni di rabbia, tentò di mascherare quel sentimento con il contrasto della voce dolce:< In cielo tesoro, insieme agli angeli!>.
La febbre “Spagnola”, conosciuta anche come la “Grande influenza”, si era portata via Amelia in quel desolato mese invernale.
Correva l’anno 1922 e nessuno se lo aspettava. La prima guerra mondiale era finita da qualche tempo e la gente, stanca della fame, dei lutti e delle carestie, aveva creduto di poter pregustare le gioie della pace.
Invece, incurante dei loro poveri sogni, il virus mortale aveva già fatto comparsa qualche anno prima. La chiamavano febbre “Spagnola” perché la stampa iberica fu la prima a parlarne, dato che ne rimase vittima il loro re Alfonso XIII.
Non esisteva una cura, né un vaccino, per quella che si rivelò la pandemia più catastrofica della storia dell’umanità.
Rosina tutte queste cose le ignorava, sapeva soltanto che le aveva strappato la mamma in pochi giorni.
Una sera, ad Amelia era salita la febbre e aveva preso a vomitare, ma quando cominciò a buttar sangue dalla bocca e dal naso, la bambina fu allontanata immediatamente e portata in casa dei nonni.
Vincenzo, il padre di Rosina, che già non andava d'accordo con la moglie, ora che è vedovo decide di trasferirsi in Francia. Rosina:
- Anche la piccola si ammala, rischiando di morire. (18%)
- Viene chiusa in un istituto (9%)
- Viene lasciata a vivere con i nonni. (73%)

25/09/2016 at 16:23
L’ho notato in due punti:
Verso Franca che, singhiozzava…
I compagni di quella che, era sembrata…
Ma dicevo così per dire, a me capita di rileggere decine di volte cancellando l’errore, me lo devono indicare, altrimenti non lo vedrei mai.
30/09/2016 at 22:53
Hai perfettamente ragione, con la punteggiatura sono ancora un disastro. Perdonami. Per fortuna che prima di pubblicare l’altro racconto ho fatto fare la correzione delle bozze, non me la sarei mai rischiata, data la mia poca esperienza.
25/09/2016 at 10:52
Ok, la storia è dunque appena iniziata ed è ufficialmente un rosa.
In questo ultimo trovo alcune strane punteggiature. Per il resto lo stile è inconfondibile.
Ciao a presto
25/09/2016 at 16:04
Ciao Jaw,
ti ringrazio per aver continuato a seguirmi. Devo dirti che la tua capacità di osservazione e analisi è davvero acuta, sei stato l’unico a badare allo stile.
Ti chiedo, gentilmente, se potresti farmi notare la punteggiatura che ti sembra strana in modo che io possa correggermi e migliorare.
Non posso negare che, dopo un inizio molto storico, ora sono nella piena fase di una parte rosa, ma non mi azzarderei ad attribuirle un solo genere, perchè nella parte finale la storia tornerà a farla da padrona con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Lo classifichere quindi un rosa storico. Grazie di cuore per le tue preziose osservazioni che, fatte con garbo ed educazione, apprezzo sempre!
25/09/2016 at 16:25
Scusa, per sbaglio ho risposto sopra