Summer in the City

Summer in the City

Devo essermelo sognato.

Non c’è dubbio, sarebbe da me: sapete, da piccolo ero un bambino con una fervida immaginazione.

Spesso giocare da solo era più divertente che farlo con gli amici. Ogni giorno era un’avventura diversa, nuova e fantastica. Come di quelle che mi rapivano da tutto, dal sole, dai prati verdi, dalle partite a pallone e mi tenevano incollato davanti alla televisione in camera mia.

Le mie avventure si potevano anche ripetere, ancora e ancora, uguali a se stesse e se volevi, diverse. 

Sognare è una delle poche cose che nessuno può portarci via. Non si può. Forse solo essere FELICI rende l’uomo libero dalla dolce prigione di un carcere di sogni. A colui che è abbattuto e senza speranza in fondo resta sempre un ultimo sogno: addormentarsi.

Ma questo pomeriggio…non posso avere l’assoluta certezza dei miei sensi. Sapete, il caldo, la morsa dell’afa, i mille rumori che in un appartamento vecchio come questo si alternano e confondono lo spettatore di una tv che trasmette a random, che sonnecchia cercando una buona scusa per posticipare ancora la preparazione degli esami di settembre. Tutto ciò concorre a non rendermi sicuro di aver effettivamente sentito qualcosa, che ubriaco di noia e sciolto dalla calura d’agosto mi sia tracannato il cervello.

Questo pomeriggio, una serie di passi vellutati è passata in fretta nell’appartamento di sopra. Il tutto non è durato che una manciata di secondi ma tra il lamentarsi di un frigorifero che ci sta definitivamente salutando e il cigolare delle finestre, aperte nell’attesa di uno sputo di contraria, la sensazione che qualcuno stesse passando su al terzo piano è stata inequivocabile.

Come quando SENTIAMO di essere osservati. E’ una presenza fisica certa. 

Adesso il soffitto tace. Per essere il 23 agosto è abbastanza normale. I fuorisede sono tornati tutti a casa.

Ci siamo solo io, le telecronache di Guido Meda e il frigorifero che non vedrà l’autunno.

***

Questa città in estate non è niente male.

Continua a ripeterlo, bravo, forse comincerai a crederci.

In giornate come questa c’è sempre una canzone che mi si accende in testa. Sembra quasi che io rimanga qua per farne parte.

I Lovin’ Spoonful cantavano nel 1966 che é una città bollente quella in estate.

E’ la stessa cosa anche oggi: i negozi chiusi, non un fabbro disponibile all’incauto che ha rotto la chiave di casa nella toppa, non una biblioteca o una sala studio aperte con quei fantastici getti di aria condizionata che sono una condanna per la salute, il giorno dopo, ma una manna divina per l’hic et nunc. Ed è adesso che mi porto appresso il peso dei libri e in lontananza vedo il miraggio di un libretto pieno di belle firme illeggibili. 

Tutto questo però non c’è, l’unica cosa di cui questa città sembra aver bisogno, un bisogno primitivo ed insaziabile che se venisse a mancare scatenerebbe una sommossa popolare, è il gelato. 

Benedetto sia il gelato. Ho già provato a studiare in gelateria, niente da fare: mangio e guardo le ragazze che arrivano. 

E fa caldo. Molto Caldo. E loro sono poco vestite. Molto poco vestite. E…bhè…fa caldo!

Perciò anche oggi picche allo studio. Chi ci sarebbe riuscito, tra l’altro. La noia deve avermi fatto un altro scherzo comunque, ma è strano: per annoiarti devi prima non-aver fatto niente. Io invece dormivo.

Sabato mattina. Niente sveglia per principio. Non mi sono mai scapicollato per lanciarmi sui libri nè per passarci la notte assieme. 

Ho sempre avuto una sola regola: non si studia dopo le 7 di sera. 

Indipendentemente da che ora avessi cominciato. Su certe cose non transigo. 

Conoscete quella strana sensazione che a volte precede il risveglio, in cui i sensi catturano il mondo esterno e lo confondono con il sogno che state facendo? 

Bè, fatto sta che mi sono sono ritrovato dal gestire un Bed&Breakfast in riva al mare senza alcuna nozione di come si accende un fornello o di come si sbatte un uovo all’essere catapultato nel mio liceo, alla lavagna, di fronte ad un professore che mi chiedeva una formula di fisica che io non sapevo nemmeno esistesse. Immaginate il delirio, il senso di inettitudine, l’espressione ebete sul mio volto. Il prof insisteva, incredulo che non capissi cosa dovessi fare. Poi ecco che si avvicina, prende il cancellino e comincia a fare tabula rasa, ma mica strofina, no: picchetta il bordo di spugna alzando nuvolette di gesso. 

Paf. Paf. Pafpaf. Paf. PafPafPaf. Paf. Paf. Paf.

A quel punto si arma di una chitarra elettrica fatta di aria e con le dita descrive un assolo sul niente. 

She’s got a smile that it seems to me

Reminds me of childhood memories

Where everything Was as fresh as the bright blue sky…

Vabbè, mi sveglio. PAF. PAF. PAFPAFPAF. PAF. Recito qualcosa che non posso ripetere. Il soffitto. Strizzo gli occhi affogati nella luce della finestra. Il terzo Piano. Metto a fuoco. PafPafPaf. Paf. Paf. Rumore di sedia che stride. La musica muore all’improvviso e tutto torna al silenzio benedetto del sabato mattina.

Chi ascolta i Guns’ a quest’ora?

Quale sarà la prossima mossa di Enrico?

  • Si mette a gridare in direzione del soffitto, come un matto (17%)
    17
  • esce di casa pronto per far passare un brutto quarto d'ora all'inquilino di sopra (17%)
    17
  • cerca la stazione radio con la canzone dei Guns' (67%)
    67
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