L’uomo che gli rubavano le idee

Dove eravamo rimasti?

Nel prossimo capitolo: Il vecchio torna alla carica (57%)

Di nuovo a rapporto

“Uncì, ma tre settimane intere? Te ne devi andare in Nuova Zelanda? E che è la luna di miele?”

Uncino e Santoro erano fermi alle macchinette del caffè, per la prima delle tre pause mattutine.

Santoro, appoggiato pericolosamente al tavolino alto che stava lì vicino, fissava il foglio con la richiesta di ferie del sottoposto come se fosse un vilipendio alla sua persona.

“Ma che dice commissario,” si difese Uncino, alzando le spalle in un timido gesto di scusa. “E’ che la Rosa mi ha dato l’ultimatum. O la porto a Rimini o mi molla!”

Uncino finì la frase guardandosi i piedi e tutto quello che rimase visibile della sua faccia da beccafico fu un pezzo di fronte, rossa come il piatto forte alla Sagra della Peperonata.

“Tre settimane? A Rimini? E che ci dovete fare? Gli aggiornamenti di Tuttocittà?”

“No, è che la Rosa desidera andarci fin da ragazza.”

 “Santa Gertrude, che mi tocca sentire. Rimini,” mormorò Santoro, scuotendo la testa. Appoggiò la penna con stizza sul foglio e lo bucò. Santi e martiri uscirono in coro dalla bocca, mentre estraeva la biro dal foro e ritentava la firma. Appena terminata l’ultima vocale del cognome, Uncino gli scippò il permesso da sotto la penna come quei maghi che sfilano la tovaglia da sotto la tavola imbandita e se lo ficcò fino in fondo alla tasca. Forte dell’impresa riuscita e dell’approvazione che avrebbe fatto felice la Rosa, si fece subito ciarliero.

“Commissario, com’è finita la faccenda del vecchio?”

“Quale vecchio?”

Uncino fece una pausa, insicuro se continuare per via del tono brusco di Santoro.

Rischiò.

“Quello che ieri ha scompigliato l’intero commissariato e non se n’è andato finché non ha parlato con lei.”

Santoro strizzò gli occhi. Poi fece fare alle pupille un bel semicerchio verso l’alto.

“Sant’Antusa di Costantinopoli, possibile che la gente si ricordi solo dei piantagrane?”

Uncino sgranò gli occhi. Alle spalle del commissario era comparso il sopracitato piantagrane.

Si metteva male e da bravo sottoposto pensò che fosse arrivato il momento giusto per dileguarsi. Dopotutto aveva ottenuto quello per cui era venuto, inutile andare a snidare grane.

“Signor Commissario, buon giorno!”

Il vecchio si annunciò dando a Uncino il tempo di svanire. Santoro, che avrebbe desiderato farsi inghiottire dalla parete, rimase come folgorato e non riuscì nemmeno a rimbeccare il sottoposto. La sua stazza rendeva impossibile qualsiasi tentativo di camuffamento e la sfilza di santi e martiri che gli usciva dalla bocca lo avrebbe reso rintracciabile in ogni caso. Per cui finito di scomodare l’assemblea di pii nominativi si voltò con la sua migliore espressione di rassegnazione sul volto.

“Sono tornato,” disse il vecchio.

“Ha fatto bene a sottolinearlo.”

“Lei mi deve ascoltare!”

“Mi dica, ho scelta?”

“Hanno rubato la mia Musa,” disse il vecchio, con le mani a coppa davanti a sé. Avrebbe potuto suscitare pena, se non fosse che Santoro aveva spazio nella sua testa solo per il fastidio. Poi andò con la memoria al giorno prima nell’ufficio del questore che aveva tartagliato un, Il contribuente è il nostro supremo titolare. Noi siamo al suo servizio. D’ora in poi guarderò da vicino i suoi casi. Spero di non rimanere insoddisfatto.

Sospirò. Se di quella morte doveva morire, tanto valeva morire in fretta.

Entrò in ufficio pensando di essere seguito a ruota dal vecchio, ma quando si voltò non c’era. Il pensiero di rifare i tre passi verso la soglia, con il conseguente spreco di energie derivante, quasi gli fece ingoiare il buon proposito ancora tremolante. Ma il questore aveva fama di essere uno smerigliatore di palle professionista e il vecchio in quell’istante era il male minore.

“Be?” disse una volta arrivato sulla soglia, vedendo che il vecchio non si era mosso di un fiato.

“Berillio.”

Santoro sfarfallò con gli occhi, sicuro di non aver capito. Uncino in quel momento stava spazzando attorno alla sua scrivania, attento a non spingersi un centimetro oltre il suo perimetro. Santoro concentrò su di lui la sua perplessità. Indicò uno spazio palesemente oltre la scrivania del sottoposto e lo apostrofò, “Uncì, che è del comune quello?”

“Certo, commissario!” rispose Uncino, lesto a scansare gli incarichi.

“Allora tu sei l’uomo del comune!” tuonò Santoro, voltando le spalle e tornando alla sua scrivania.

Ricreò l’incastro perfetto con la poltrona e attese che il vecchio lo raggiungesse.

Quello entrò con calma, come se il tempo per lui non scorresse.

Poi si accomodò di fronte a Santoro, nella stessa poltrona del giorno prima.  

Rimase così, con le punte delle dita unite davanti alla bocca, senza dire nulla.

Santoro socchiuse le palpebre. Se quella era una gara, potevano stare lì l’intera giornata, pensò stizzito.

“Ho un sospettato,” dichiarò trionfante il vecchio dopo dieci minuti buoni di silenzio, estraendo

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34 Commenti

  • Ciao Aiels,
    molto divertente questo capitolo, peccato che il tempo trascorso dall’ultima pubblicazione mi abbia lasciato un po’ indietro con la storia… sono felice che tu abbia comunque ripreso ora, piuttosto che fra anni.
    Ora aspetto di leggere il finale e ti auguro una buona giornata.
    Alla prossima!
    p.s. dalla Pamela

    • Ti ringrazio per il commento. Me la sono presa comoda per vari motivi, lavoro, altri libri da pubblicare e soprattutto l’aver perso un pò il polso della storia, che nella mia testa era partita con il botto e poi sulla carta si è rivelata un cerino (ihihi). Siccome detesto lasciare le cose a metà sono tornata e conto di finire, spero non con tempi biblici.
      Intanto grazie. Ci risentiamo per il finale se vuoi! 🙂

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