Tornare dall’Europa.
Negli anni in cui ero giovane e più vulnerabile di adesso, mio padre mi ripeteva sempre: “Ogni volta che ti viene di giudicare qualcuno per il suo modo di vivere, ricorda che non ha avuto la tua stessa fortuna.”
Questo pensiero, capirete bene, mi è rimasto per sempre in testa. Da allora sono sempre stato molto attento a giudicare il prossimo. Ho sempre cercato di trovare il modo di mettermi nei suoi panni e capire le cose dal suo punto di vista. Non sempre ha funzionato. Questo però non mi ha fatto cambiare idea sul genere umano.
Vedete io credo che gli uomini siano creature semplici. Basta trovare quel tassello e quando l’hai trovato allora puoi essere certo di averli capiti davvero.
Più di una volta mi sono trovato a parlare con mio padre su questo argomento. E lui mi ha sempre risposto come uno che conosce la verità. Devo dire che il mio vecchio, anch’essendo un contadino dalle umili origini, poteva tenere tranquillamente testa a un politico o a un professore.
Quando a diciannove anni andai via da casa, mi accorsi che il mondo era diverso da quello che mi ero immaginato fino ad ora. Mi ero fatto un’idea distorta del pianeta in cui vivevo. I libri narravano una società completamente opposta da quello che vedevano i miei occhi di ragazzo. Così accadde che al college venni accusato di essere una spia, uno sporco politico perché conoscevo i segreti degli altri ed ero bravo a farmeli raccontare. Nulla di più falso. Più di una volta ho cercato di fingere sbadigli e inventato scuse ma nulla è servito. La gente mi guardava e lì veniva voglia di confidarsi. Erano convinti che una persona empatica come me potesse capirli al volo e tirarli fuori dai loro tormenti adolescenziali. Che stupidi.
Tutt’oggi è ancora così. E io non posso farci nulla. Se non quello di sedermi, tirare fuori il pacchetto di sigarette, accenderne una e prestare il mio tempo al mio interlocutore o interlocutrice.
Al mio ritorno da Est, nel maggio scorso, volevo che il mondo fosse un posto migliore da come l’avevo lasciato con meno moralismo e più libertà per ogni singolo individuo. Questo mi avrebbe risparmiato i piagnistei dei miei amici. Ovviamente questo non accadde mai.
Mentre la grande depressione mandava in miseria l’intero continente americano, io tornavo in patria con le tasche gonfie d’oro e l’umore su di giri. Certo stavo molto attento a mostrare la mia felicità o qualcuno me le avrebbe date di santa ragione. E avrebbe fatto bene.
Per le strade vedevo uomini che recitavano la bibbia, donne seguite da marmocchi che si attaccavano alle loro vesti come fossero mammelle e individui dalla dubbia moralità.
C’era un aspetto pratico in tutto questo, era molto facile trovare una bella camera senza spendere troppo. Ne vidi cinque e alla sesta decisi che era adatta a me. La finestra dava sulla strada e alle mie spalle sorgeva un piccolo cinema dove con pochi cents potevi vederti due film di seguito. New York risplendeva di povertà e di tristezza ma eravamo nella bella stagione e io non subivo i suoi effetti malinconici. Venivo dall’Italia e mi ero appena lasciato paesaggi a dir poco entusiasmanti. L’odore della vecchia Europa mi perseguitava ancora e io ne ero felice. Mi sentivo uno straniero in casa mia fino a un giorno. Ero in fila per comprare il giornale, quando uno sconosciuto mi si avvicinò e mi domandò: “Dove si trova il ristorante H.?”
Glielo dissi. E quando, dopo aver acquistato il giornale, ritornai in direzione del mio alloggio non mi sentivo più uno straniero. Senza saperlo quell’uomo aveva cacciato in me quella sensazione sgradevole che mi faceva sentire un pesce fuori dall’acqua. E così, grazie a quella domanda ritornai a indossare gli abiti dell’americano di buona famiglia e del sogno che aveva reso grande questa nazione. Ricominciai a uscire con le vecchie amicizie di una volta, a fingere che tutto quello che mi dicevano fosse davvero interessante e valesse la pena restare ad ascoltare, fare tardi la sera, fischiare dietro alle ragazze e altre cose di cui avevo perso ormai l’abitudine dopo due anni in giro per l’Europa. E poi c’era il lavoro. Diversamente da un enorme fetta di americani, io un lavoro ce l’avevo ancora. E si trattava di insegnare alle giovani menti, alle future generazioni che un giorno avrebbero salvato questo paese dalla mediocrità. Almeno era questo che pensavo allora.
Un giorno, seduto alla mia scrivania mi venne recapitato dalla padrona di casa una busta gialla con dentro una lettera. Chi mai poteva scrivermi? Ringraziai la Signora D. e ritornai a sedermi dietro la mia scrivania. Presi un paio di forbici e aprì la busta. Dal suo interno uscirono ben due lettere che caddero ai miei piedi. Mi inginocchiai e le raccolsi. Nella prima lettera mi si parlava di un’eredità, nella seconda invece mi veniva detto che mio fratello Abe era morto. Infine vi era un minuscolo pezzo di carta dove vi era scritto, con una calligrafia al quanto disastrosa, dì raggiungere Hoville il più presto possibile.
cosa fa Febus?
- Sì prepara una tazza di tè (0%)
- Rifiuta la richiesta di partire (0%)
- Raggiunge Hoville (100%)

07/03/2021 at 13:46
Ciao, questa storia somiglia sempre meno ad un horror e sempre più ad un giallo a sfondo sociale, forse dovevi scegliere appunto il “giallo”. Sei al nono capitolo ed è un peccato perché la vera storia sembra stia appena per cominciare, ti suggerisco di pensare ad un seguito.
Il consiglio di oggi è di non avere fretta nel pubblicare, impari in fretta e puoi correggere gli errori che vedresti meglio rileggendo quello che hai scritto, magari il giorno dopo. Buon lavoro ciao ??
02/03/2021 at 13:37
Rieccomi, Paola.
Una storia interessante e… misteriosa. Dei refusi qua e là ti hanno già scritto gli altri commentatori, quindi mi limito ad aggiungere che questa possibilità che dà TheIncipit di interagire e collaborare tra autori è molto utile e va sfruttata al massimo.
Ciao, ti auguro un’ottima giornata
02/03/2021 at 17:32
(dimenticavo: ho votato per l’esplosione)
06/03/2021 at 11:25
grazie!