Sotto l’ombra di un dio

Come una puttana...

-Allora, che sia pace tra i nostri popoli. – Sussurrò Azhay mentre contemplava le mani coperte di sangue.
– Pace? – Chiese stupito il capoclan del fuoco. – Quel sangue appartiene ai nostri fratelli, ai nostri figli. Non farete niente al riguardo? Vi venderete come delle puttane a quei bastardi? – Chiese mentre la collera tingeva la carnagione olivastra di un rosso vivo. – E per cosa? Per strozzarci con questi? – Domandò e portando la mano al collo si strappò una collana dorata. Con ira la scagliò per terra ed essa scivolò fino ai piedi scalzi della divinità. In un ultimo momento di silenzio Azhay ed il capoclan del fuoco si guardarono negli occhi, poi l’umano portò la mano al fianco.
– Siete voi la causa di tutto ciò! – Gridò e scagliandosi contro la divinità estrasse un pugnale che guizzò nella semioscurità. Gli altri due capoclan, atterriti da quel atto, si lanciarono subito contro quel gesto per proteggere Azhay ma egli fu più veloce. Afferrandoli per le vesti li scagliò a terra allontanandoli così dalla lama mentre quest’ultima gli trapassò il corpo come se fosse fatto di nebbia e perdendo l’equilibrio il capoclan del fuoco si ritrovò per terra e senza più un dio. Azhay digrignò i denti ma rimase in silenzio, ne era uscito indenne, eppure si sentiva come se avesse miseramente perso. Un flusso di guardie accorse al udir quelle urla, gli scorse lungo i fianchi qualche attimo dopo, ed egli rimase in silenzio. Il corpo del capoclan del fuoco venne esposto alle quattro entrate del villaggio, ed egli rimase in silenzio. Il quartiere del fuoco venne bruciato, quello che ne rimase degli abitanti fu spartito tra i soldati ed i figli del fiume. Alcuni si salvarono diventando servi di qualche famiglia altolocata del clan dell’acqua, altri fuggendo verso nord. Ed egli rimase in silenzio.

    Come una puttana… Continuava a pensare Azhay mentre sporadicamente si sfregava le grandi mani ingioiellate per liberarsi da quella sgradevole sensazione che da diversi mesi lo tormentava. E non c’erano ne lunghi bagni nel latte o balsami importati dalle terre più lontane, che potevano salvarlo da quella appiccicosa percezione di avere ancora del sangue incrostato sulla propria pelle.
     Una folata di vento entrò nella stanza illuminata dai bracieri ed intrisa dell’aroma della carne cotta allo spiedo, alcuni servi accorsero per chiudere la finestra ed impedire che il maltempo autunnale si riversasse nell’ambiente festante. I pregiati stendardi e le ghirlande ondeggiarono lievemente mentre i due popoli, pizzicati da quell’alito gelido, si strinsero tra di loro inebriati dall’allegria della celebrazione. Intanto il grasso dei maialini e dei capretti colava dolcemente dalla carne sfrigolando ed intensificando quell’aroma capace di rapire ogni commensale di quel lauto banchetto. E mentre i due popoli iniziavano a condividere oltre le leggende, anche il proprio calore, la divinità osservava coi suoi grandi occhi dorati i nuovi alleati che aveva guadagnato da quella pace, chiedendosi chi di quei seducenti guerrieri, fosse stato l’artefice del dono ricevuto all’inizio di quell’estate ormai passata. Non tanto per compiere una possibile vendetta dato che Azhay non avrebbe mai potuto nutrire un possibile sentimento verso i suoi adorati umani, ma piuttosto per non rischiare di portarsi a letto l’assassino del suo defunto amico. Perlomeno, non nella stessa notte in cui si sarebbe sugellata la pace tra i due popoli. Tuttavia non era facile analizzare così tante persone in quell’assordante frastuono di euforia, in quella cacofonia di colori in cui i duri e fieri volti dei suoi guerrieri e dei guerrieri del Re dell’oro s’intrecciavano con quelli dipinti d’oro degli schiavi del signore che gli stava ospitando. Un umano ricco, nutrito dai fiumi di metallo che pulsavano nei monti alle sue spalle. Un umano spietato, che era riuscito a condurre fino ai suoi piedi un dio e che lo avrebbe masticato a suo piacere tessendo i propri desideri sulla sua lingua.
     All’improvviso, uno sguardo dorato. Azhay tornò a guardare la massa di schiavi da cui aveva appena distolto gli occhi. D’oro erano i volti, d’oro le catene e d’oro le promesse che gli si donava in cambio di qualche silenziosa perversione. Ed alla fine, d’oro era lo sguardo. Ed appena lo vide, la stanza e la sua orgia di sensazioni scomparvero, ed appena lo vide, rimase solo quello.
– Grande padre! Sono arrivate! – Urlò il re dell’oro per farsi sentire, ma Azhay non lo udì, perché per lui in quel momento esisteva solo il flebile rumore di un tenue respiro. – Le mie tre figlie, le più belle ed ancora illibate. Controllato personalmente. – Garantì l’umano leccandosi le labbra mentre tre ragazzine si stavano incamminando verso la divinità. 
– Padre… – Tentò di richiamarlo uno dei suoi figli più grandi dandogli con fare grezzo una gomitata al fianco. Azhay rinvenne e le luci, gli odori ed il frastuono della festa lo colpirono peggio di uno schiaffo. 

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