PROLOGO
Erano le otto di un mattino di fine gennaio. La giornata era fredda, ma soleggiata. Un giovane maestro elementare, era arrivato davanti al cancello della sua scuola, e si apprestava ad entrare. Prima, però, complice un suo atteggiamento vagamente fatalista, si era fermato a contemplare il cielo, come estasiato. Si ripeteva che come aveva scritto Emilio De Marchi nel suo romanzo «Il cappello del prete», «una gran pace calma, riposava sulle cose». Anche lui scriveva. Infatti, insegnava italiano. E proprio in quel periodo stava scrivendo un romanzo sui ragazzi delle borgate napoletane. La sua opera, però, nessuno l’avrebbe letta, perché appena un mese dopo, sarebbe morto per un pestaggio violento, che non gli avrebbe lasciato alcuno scampo!
Era arrivato a Napoli soltanto un anno prima, ma già si era integrato alla perfezione tra i suoi abitanti, assimilandone in modo altrettanto impareggiabile la filosofia.
La scuola dove insegnava era un enorme casermone che prima, durante la guerra, era stato requisito prima dai tedeschi e dopo, quando entrarono in città, pure dagli americani. E adesso, pure lo stato ci si metteva, a fare il bello e il cattivo tempo. Prima, quando era finita la guerra, ci avevano messo gli sfollati. Poi, il governo stesso senza neppure un minimo di preavviso, decise che dovevano tornare professori e studenti, e così, gli sfollati furono costretti a sloggiare.
Il professore entrò col manico della sua borsa in pelle marrone stretto nella sua mano destra. Colleghi e alunni lo salutavano appena lo vedevano, amichevolmente. La sua classe preferita, tra tutte quelle che gli erano state affidate, era la «quinta C». Lui affermava con certezza che in quella classe c’erano i migliori alunni che avesse mai avuto. Gli altri professori, non erano proprio dello stesso avviso. Infatti, dicevano che tuttalpiù, in quella classe, gli alunni che la componevano erano al massimo, il «meno peggio» che si potesse trovare nei paraggi. Conosceva tutti ed era amico anche delle famiglie. E molto spesso, incontrava i suoi alunni anche fuori da scuola. Con loro andava in giro per i quartieri, a giocare a zecchinetta e a volte, (se non c’era scuola ed era anche una bella giornata), se ne andavano pure al mare.
Il professore si chiamava Pier Paolo, aveva ventotto anni e si era trasferito a Napoli dal Friuli. Era partito con sua madre al seguito. Erano andati ad abitare per i primi tempi, in mezzo ai «baraccati» di Forcella, tra «munnezza», disoccupati, nullatenenti, «scarpari», vecchie «fattucchiare», contrabbandieri, «zoccole» (sia di genere «umano-femminile», che animale) con figli al seguito, alcuni «ricchioni» travestiti (che pure loro esercitavano «il mestiere») e infine pure ragazzi e ragazze giovani che abitavano con i genitori, ma che invece di frequentare la scuola, andavano a lavorare per «portare i soldi a casa», come i genitori gli imponevano.
Siccome era un acuto osservatore della realtà, per scrivere i suoi racconti girava per la città (quando aveva il tempo libero), osservava i tipi, ascoltava i fatti che gli amici e i conoscenti gli raccontavano, e poi, di volta in volta, riportava per iscritto alcuni episodi tratti dalla vita reale, mentre altri, (che molto spesso, erano sempre quelli più eclatanti e simpatici), se li inventava. Quello che gli era sempre rimasto impresso, era il primo incontro con un gruppo di ragazzini dopo appena cinque giorni che era arrivato a Napoli. Per descrivere questa scena alla grande, ci vorrebbe soltanto la penna del grande Eduardo De Filippo, ma siccome questa storia la sto’ scrivendo io, vi dovrete per forza «accontentare» del mio modo di scrivere e di raccontare. Dunque, il fatto andò così: il professore, un giorno, dopo aver fatto la sua «brava lezione» ai suoi alunni, se ne stava andando in giro tutto solo per le strade, quando, ad un certo punto, vide seduti su un muretto alcuni ragazzini (quasi tutti tra i diciassette e i diciotto anni), che pareva che stessero giocando a scopa. O meglio: due giocavano, mentre gli altri osservavano. Il professore se ne stette lì ad osservarli, a sentirli parlare per un po’, e ne sembrava non solo rapito, ma anche impressionato. Quegli scugnizzi, sebbene parlassero sì, in modo semplice e popolare, ma avevano un animo così candido e pulito, che li faceva di diritto degni eredi dei loro antenati: i filosofi della Magna Grecia! A guardarli bene, infatti, nessuna sorta di dubbio potrebbe mai tentarci. Ho detto prima che, il professore era rimasto per un po’ ad osservarli «giocare» e ad ascoltare i discorsi che facevano. Ma più che le cose che si dicevano, lo colpivano assai la lingua napoletana, e i termini «ricercati» che quelli utilizzavano.
Che cosa accade?
- interviene e chiede di fare pure lui una partita a scopa (0%)
- interviene e chiede se vogliono seguirlo in giro per la città (0%)
- Il professore resta in osservazione dei fatti, come uno spettatore a teatro (100%)

06/03/2023 at 17:40
Ciao, benvenuto, e buona scrittura, visto che hai davvero una buona mano per te non dovrebbe essere difficile.
Non ho al momento rilievi ( a parte qui dove credo manchi una parola ‘Mosse? Cose?’ “…forse per proprio «statuto», di fare sempre le stesse, non è certo paragonabile…”
Scrivere in dialetto è difficilissimo bisogna aver studiato e io non ho studiato il napoletano, quindi non giudico, mi limito a dire che lo trovo semplicemente meraviglioso.
Ultima cosa: ho l’impressione che la storia sia già scritta, e mi dispiacerebbe se fosse così. Su the iNCIPIT i lettori sono protagonisti, e leggono per indirizzare la storia…
Voto aggressione senza morto, ciaooo?
06/03/2023 at 22:54
Ciao, innanzitutto, grazie del commento. Effettivamente, manca la parola “cose”, perchè purtroppo, non me ne sono reso conto mentre scrivevo. L’ho capito soltanto dopo aver pubblicato. Ma purtroppo, non credo ci sia la possibilità di correggere.
Per quanto riguarda il dialetto napoletano, gioco in casa”, perchè sono Napoletano.
Veniamo anche alla storia: quando ho scelto questo sito, non sapevo del limite di cinquemila parole. Io, in parte, avevo cominciato a scrivere di getto il prologo. Quindi, ammetto che qualcosa era già preventivato, come ho detto in uno dei precedenti commenti, quando ho spiegato, che la storia sarebbe pure continuata, se il limite di parole, non mi avesse bloccato. Per una scrittura lunga come la mia, è un problema!
04/03/2023 at 14:49
Non male come scrittura. Non sono amante del “cattiverie del mondo” ma se continua così posso darci ancora un occhiata.
Comunque rimane spettatore. Unirsi mi sembra ancora troppo presto. Già sospetto non finirà bene in nessun delle tre scelte. Ma la meno “pericoloso” mi pare lo spettatore.
04/03/2023 at 15:34
Grazie del commento. Ma la storia non si risolverà in dieci episodi… Sarà lunga. Il limite alle parole imposte dal sito, guasta un pò le feste, secondo me…
04/03/2023 at 07:33
Se ve lo state chiedendo, la scena sarebbe continuata. Ma ho dovuto chiudere qui per un limite del numero ammesso di parole e spazi inclusi.